Dal glisolfato alla celiachia, dai grani antichi alle coltivazioni biologiche (vere o presunte), dai prodotti autoctoni a quelli importati: per i consumatori è difficile orientarsi in maniera consapevole
di LICIA GRANELLO da Repubblica.it
Una farina per amica. Le feste di fine anno hanno fatto impennare acquisti e consumi, tra tortellini e panettoni, polente e tartine, lasagne e pandori. L’universo delle farine è così variegato che l’imbarazzo della scelta è totale: grano tenero e duro di cento varietà diverse, mais, manitoba, integrale, biologica. E poi con o senza crusca, addizionata di lievito, macinata a pietra, doppio zero o zero soltanto.
Grande è la confusione sotto il cielo dei grani, tra chi cerca pervicacemente di assommare qualità a salubrità e chi invece sceglie la serialità a tutti i costi (purché bassi). Informazioni sulle farine, poche o nessuna. Il marketing di pasta e prodotti da forno esula abilmente dalla questione, facendo passare l’assenza di certi ingredienti (no questa o quella farina, no zucchero, no grassi, no sale) per valore aggiunto. La glorificazione del “senza” azzera l’importanza del “con”, in un capovolgimento della comunicazione che non aiuta.
La legge (Reg. UE 1169/2011/art.3 Reg. CE 1333/2008) per esempio, permette di commercializzare gli sfarinati addizionati con “coadiuvanti tecnologici” senza l’obbligo di scriverlo in etichetta. Le sostanze, che in molti casi non hanno una concentrazione specifica imposta, servono a sbiancare, conservare, potenziare, ammorbidire, accelerare, profumare, e più in generale “migliorare” le farine che vengo spesso private del germe, sia perché fermenta facilmente, sia perché si guadagna di più vendendolo all’industria cosmetica (come succede con il burro di cacao).
L’elenco è lungo e articolato: glutine secco, acido fosforico, L-cisteina, acido ascorbico, biossido di silicio, enzimi come alfa-amilasi e xinalasi, ecc. Nulla di scopertamente dannoso, anche se abbondano i potenziali allergeni, a partire dal glutine indotto con la sua catena di aminoacidi più lunga e complessa di quello naturale, mentre le proteine ricavate dal pancreas del maiale confliggono con la dieta vegetariana.
Il peggio si chiama glifosato, l’erbicida più utilizzato nel mondo, dichiarato “probabile cancerogeno” dalla IARC (International Agency Research Cancer), diramazione medico-scientifica delle Nazioni Unite. Come sostiene la dottoressa Fiorella Belpoggi, direttrice dell’Istituto Ramazzini di Bologna, “Tutte le sostanze dichiarate potenzialmente cancerogene IARC sono state poi confermate nella loro tossicità”.
L’Unione Europea fissa a 0,5 mg per kg di peso corporeo la cosiddetta “dose giornaliera accettabile”, assommando cibi e acqua. Gli scienziati della Fondazione Heinrich Böll hanno analizzato duemila campione di urine, scoprendo che il 75% presenta tracce di glifosato cinque volte superiori al limite di legge, con particolare riferimento a bambini e adolescenti. E se i tedeschi bevono molta birra, il consumo di farinacei nel Nord Europa è decisamente inferiore a chi pratica la dieta mediterranea. Non a caso, una recente ricerca condotta da Test-Salvagente su cento alimenti a base di cereali e sull’acqua potabile, ha evidenziato tracce di glifosato nella pasta e in altri prodotti come fette biscottate e corn flakes.
Il guaio vero è che il glifosato non viene semplicemente usato per combattere le erbe infestanti. Da qualche anno in Canada, e più in generale in climi umidi e freddi dove la maturazione del grano riesce faticosa, è invalsa la pratica del “pre-harvest”, il raccolto precoce, ottenuto irrorando abbondantemente le piante al culmine della fogliazione. Con un doppio risultato: seccare il grano quando è al massimo della quota di glutine (il famoso 13%, soglia ideale per la pasta secca) e staccare più facilmente i chicchi, riducendo i costi.
Al di là di biologico e biodinamico, i cui disciplinari vietano l’utilizzo di qualsivoglia additivo chimico, l’unica scelta forte e pubblica è stata compiuta dalla Regione Calabria. A fine 2016, infatti, è stata varata una delibera per escludere le pratiche agricole che utilizzano il glifosato dalla concessione di fondi pubblici, con il plauso della Coalizione #StopGlifosato composta da una cinquantina di associazioni, tra cui WWF, Legambiente e Greenpeace.
Poi ci sono gli artigiani che praticano una cultura del cibo consapevole. Patrick Ricci, pizzaiolo-contro che combatte la sua personale battaglia contro gli impasti seriali, seleziona le farine direttamente alla fonte, andando a cercare piccoli produttori di grani antichi, poco produttivi ma sani e robusti. Per le pizze del suo locale “Pomodoro &Basilico”, sulla collina di Torino, utilizza una miscela in perenne divenire di grani teneri e duri come Tuminìa (Sicilia), Romanella (Campania), Senatore Cappelli (Puglia ), Solina (Abruzzo ) e Grano del Miracolo dei colli piacentini, “e pazienza se comporta maggior lavoro e tempi più lunghi. La differenza in termini di fragranza e digeribilità è enorme”.
Discorso analogo per la pasta. Il gragnanese Giovanni Assante ha deciso di scrivere “solo grani italiani” sulle confezioni del suoi paccheri Gerardo di Nola. “Un tempo il grano arrivava dall’Ucraina, il Taganrog era perfetto per la pastificazione. Poi c’è stata Chernobyl e non mi sono più fidato. Ho indagato nella mia terra, ho trovato dei piccoli mulini nella zona dell’antica Daunia, tra Avellino e Foggia, ho cominciato a fare la pasta con il Senatore Cappelli macinato a pietra. Certo, è più difficile, l’abilità del pastaio nel fare la miscela diventa fondamentale, i tempi di cottura sono più delicati perchè la maglia glutinica è meno forte. Ma lavorata con la semola giusta, la pasta è l’alimento più buono e digeribile che esista. La celiachia e le intolleranze sono esiti nefasti di una non cultura che considera il cibo una merce e non un valore. Io, e tanti artigiani come me, stiamo da un’altra parte”.